II termine androne ha origini incerte. Dal latino andron andronis, passaggio, al greco andron, andronos, luogo degli uomini, ovvero nella casa greca quella parte riservata ai soli uomini, in opposizione al gineceo, parte riservata alle sole donne. Nella casa romana l’andron era uno stretto corridoio che univa la parte pubblica (atrium) alla parte privata (peristilium) della domus.
Viceversa, atrio, dal latino atrium, ha due possibili etimi che indicano rispettivamente, un luogo oscuro, ater, coperto della fuliggine del focolare oppure dal greco atrion, sereno a cielo aperto, e corrispondeva al luogo dove veniva collocata la vasca in pietra, impluvium, che raccoglieva l’acqua piovana. Quasi una fonte, una sorgente d’acqua e di frescura.
Di fatto l’androne, nelle abitazioni antiche come in quelle contemporanee, caratterizza un luogo di passaggio, una sorta di soglia che divideva il mondo selvaggio e confuso degli ‘Altri’, dalla chiarezza e dalla sicura serenità dell’universo domestico, parola che già di per se si oppone al selvaggio e pericoloso universo esterno.
Da qui forse l’etimo antico, di luogo custodito dal maschio guerriero, l’andros, a tutela della pace domestica. Una soglia che prevede e consente una sorta di decantazione, di spazio di purificazione, in vista dell’ingresso nel mondo chiaro della domesticità. Pare infatti, che siano stati gli etruschi a introdurre per primi la distribuzione tipologica della domus ellenica nel mondo latino e spesso, nelle tombe etrusche il termine athre compare come sinonimo di ades.
Una soglia quindi l’androne, che dal mondo caotico della vita aliena, ci conduce verso il mondo pacificato dell’atrium, luogo di frescura e custode del focolare famigliare spesso, decorato con meravigliosi affreschi al fine di accogliere nel migliore dei modi chi dall’esterno, amici o visitatori, entrava nel mondo domestico, attraversando via via il ricco portale in legno decorato (ostium), lo stretto vestibulum e la fauces, il vero e proprio ingresso nella domus, entrambi riccamente decorati.
L’arte quindi, si pone come promessa di una vita spiritualmente appagata dal successo mondano, che completa e sublima la sazietà dei sensi offerti dai piaceri della vita che l’atrium, inteso come corte, aulé, ovvero, luogo dove ci si ritrovava per piacevoli desinari e che per estensione, venne usata per definire gli svaghi della corte, quella parte del Palazzo dedicata alla cortigianeria, spazio di raffinati incontri pubblici, dedicati non solo ai piaceri del palato ma anche e soprattutto a quelli della vista. Belle donne, vestiti eleganti e, soprattutto, meravigliose opere d’arte.
Un concetto di domesticità piuttosto allargato, come nel caso del Megaron miceneo, fulcro centrale della vita sociale greca, cui si accedeva attraverso un porticato e un atrio, e al cui centro si trovava un focolare circolare, dove, è il caso di ricordare le omeriche risse di Ulisse coi Proci, venivano cotte le vivande per i desinari del palazzo, focolare sostituito nella basilica cristiana dal ‘cantharus’, quella fontana collocata al centro dell’atrio che veniva utilizzata per abluzioni purificatrici.
Oggi, ritroviamo nel palazzo residenziale contemporaneo analoghe strutture, sebbene in scala minore e con minor enfasi decorativa. Dalla strada ai singoli appartamenti si dipana una sequenza similmente definita da una funzionalità di accoglienza e di separazione.
L’androne come spazio di decantazione tra il fuori e il dentro e l’atrio o la corte come spazi di accoglienza per visitatori e abitanti. E qui casca l’asino. Sebbene in altri tempi, in un vicino passato, androne e atrio avessero funzioni rappresentative, pur con scale qualitativamente diverse, un’architettura più speculativa sembra aver dimenticato l’importanza apotropaica dell’arte. Se in altri anni autori come Lucio Fontana, Leone Lodi e altri importanti pittori e scultori venivano chiamati ad arricchire gli spazi di accoglienza e di transito del palazzo moderno, or non è più e l’architetto contemporaneo sembra voler bastare a se stesso.
Almeno in Italia.
Per ritrovare un qualche lacerto di ricordo delle antiche corti, degli atrii muscosi, si deve bussare alla porte delle residenze private, dove la signora ci accoglierà nell’androne/ingresso di casa iniziandoci alle delizie della vita domestica con un primo rito di purificazione, ovvero la buona vecchia e dimenticata pattina, quella striscia di stoffa che infilata ai piedi, consentiva igiene e pulizia nel resto della casa, e dove possiamo tastare, attraverso una prima selezione di oggetti d’arte e di design, il buon gusto della nostra ospite.
Ma la vera sorpresa ci attende nell’atrium/soggiorno, dove saranno esposti in bella vista i gioielli di famiglia, quadri e arredi testimoni della qualità e della raffinatezza di chi ci ha aperto l’uscio della propria abitazione. L’universo domestico riflette quindi specularmente la disposizione classica della sequenza androne/atrium nella coppia domestica dell’ingresso/soggiorno, riflettendo altresì l’ambizione a testimoniare per se e per gli altri la propria vocazione ad una vita spiritualmente dalla bellezza delle opere esposte, chiamata attraverso queste a garantire delle qualità morali del padrone di casa.
Un’ultima considerazione va fatta in merito al rapporto tra arte a architettura. Forse, l’attuale deriva dell’arte contemporanea, può essere letta anche e non solo, in virtù dell’assenza di un vero committente, che in qualche modo restringa il campo d’azione dell’autore. Così come l’assenza di qualsiasi forma di dialogo tra l’architetto tecnocrate, novello demiurgo autoreferenziale, portatore di un super ego autoriale che gli impedisce di condividere lo spazio dell’architettura con qualsivoglia non addetto ai lavori, ha portato al paradosso di un’architettura priva di volontà di dialogare con il tessuto urbano e con i suoi residenti.
Bisogna infine ricordare che i grandi maestri del novecento, Le Corbusier, Terragni, Figini, Marcello Nizzoli, solo per citarne alcuni, erano devoti cultori di tutte le arti. E i risultati si vedevano.